¡SOY BOHEMIA ! ¿Y QUÉ?

Siempre me preguntan ¿que es ser Bohemio? les respondo : El Bohemio vive por vivir , se llena de angustia sin tener por qué, pero está alegre cuando otros no están.

El Bohemio vive su vida incansable de ideas ,algunas creativas y otras filosóficas, todas para hacer de su vida un paraíso. El Bohemio no teme, solo porque él vive su vida como quiere, ahora sin causarles daños a sus semejantes. Vive la vida con principios y hasta con responsibilidad pero hace lo que quiere cuando quiere. En la música encuentra pinturas, en las poesías encuentra música, y en las pinturas encuentra versos ...es así mientras que se bebe su copa y sin faltar un café en un bar escondido adonde solo se lee por la media luz y la atmósfera del tabaco. La noche es su tarima....ahi baila, canta, bebe, conversa y admira a otros como él. Se proclama el duende de la noche. Ve el mundo con otros ojos ...él ve colores en el cielo nublado, ve la melancolía en una rosa brillante en su esplendor.

Gracias a todos que entienden estas breves letras. ¡SÍIIIIIII!!!! ¡Soy una Bohemia !!! ¿y Qué?

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Poema: Los Rios.por Jorge Luis Borges

Somos el tiempo. Somos la famosa

parábola de Heráclito el Oscuro.

Somos el agua, no el diamante duro,

la que se pierde, no la que reposa.

Somos el río y somos aquel griego

que se mira en el río. Su reflejo

cambia en el agua del cambiante espejo,

en el cristal que cambia como el fuego.

Somos el vano río prefijado,

rumbo a su mar. La sombra lo ha cercado.

Todo nos dijo adiós, todo se aleja.

La memoria no acuña su moneda.

Y sin embargo hay algo que se queda

y sin embargo hay algo que se queja.

LES FLEUVES
Nous sommes temps. Nous sommes la fameuse

parabole d'Héraclite l'Obscur,
nous sommes l'eau, non pas le diamant dur,
l'eau qui se perd et non pas l'eau dormeuse

Nous sommes fleuve et nous sommes les yeux

du grec qui vient dans le fleuve se voir.
Son reflet change en ce changeant miroir,
dans le cristal changeant comme le feu.

Nous sommes le vain fleuve tout tracé,
droit vers sa mer. L'ombre l'a enlacé.
Tout nous a dit adieu et tout s'enfuit

La mémoire ne trace aucun sillon.
Et cependant quelque chose tient bon.
Et cependant quelque chose gémit.

Traducción de :Jacques Ancet

Borges por Cristina Campo

In un racconto di Borges, L’immortale, si narra di un misterioso antiquario, Joseph Cartaphilus da Smirne; “un uomo consunto e terroso, grigio d’occhi e di barba, dai tratti singolarmente vaghi, che si esprimeva con scioltezza in diverse lingue”. Sappiamo di costui attraverso un manoscritto ch’egli lascia dietro di sé, la atroce e labirintica storia di uno che beve l’acqua degli immortali e prima di essere Cartaphilus fu un interlocutore scozzese del Vico, e prima ancora un astrologo boemo e uno scriba arabo, che era stato a sua volta un centurione di Domiziano in Tebe — e ancora un’ombra disperata e divina che si esprimeva con le parole di Omero.

È difficile, leggendo Borges, non confondere oscuramente Cartaphilus con l’uomo che lo ha creato, credere da vero a l’esistenza di questi: estremamente miope signore di sessantanni, direttore della biblioteca di Buenos Aires, animatore del gruppo di “Sur”; tre o quattro volte sfiorato da quell’evento, sempre più mestamente circostanziato, che è il premio Nobel per la letteratura. A mala pena ricordiamo certe sue vecchie fotografie, che ce lo mostrano un poco bruno di pelle, un poco obeso, più spagnolo assai che non inglese, benché in lui confluiscano questi due sangui e in più una vena portoghese e un’educazione svizzera. Apriamo un suo libro: El Aleph, Ficciones, Historia universal de la infamia, Historia de la eternidad, ed ecco Borges disparire nelle proprie parole, rifarsi antichissimo e al dilà di ogni razza: un uomo appunto “dai tratti singolarmente vaghi” cui certo non è facile giungere, che forse è addirittura morto da tempo e solo riappare fugacemente qua e là, sotto le spoglie di un ermetico viaggiatore.

Borges è forse il solo narratore-umanista che il mondo ancora possegga; è il lirico della storia, l’erudito della poesia, nei cui testi si incontrano e si sublimano, in abbaglianti e capziose alchimie, i segreti splendori di tutte le tradizioni, in particolare, data la nascita e la natura di Borges, l’arabo-ispanica : la platonica, dunque, e la catara, la gnostica, la cabalistica, l’alchimica. Il tutto complicato da una perfida e soavissima rete di cerimoniali ironie: il favolista rituale indossa panni inglesi.
Borges a reso omaggio, in più luoghi, agli autori moderni che “continuamente rilegge”: Schopenhauer, De Quincey, Stevenson e, poichè non c’è accostamento impossibile al suo astrale snobismo, Chesterton, Shaw, Léon Bloy. Ma a due nomi molto diversi, leggendo i suoi racconti più puri, corre subito la memoria: l’Hoffmannstahl di Andreas, della Lettera di Lord Chandos a Bacone da Verulamio, e l’Ernst Jünger delle Scogliere di marmo. Ma il chiaro fuoco spirituale del primo (che sa levarsi ogni volta all’attimo dell’unio mystica) e il tenace gelo del secondo, sono per così dire oltrepassati da Borges in uno stile di impenetrabile cristallo, che è lo stesso cristallo del mondo in cui si muove: un mondo in tutto simile agli specchi; sì che a volte queste innumerevoli riflessioni sembrano infrangersi l’una contro l’altra in un lampo che acceca e distrugge. Non resta che il puro, l’imperscrutabile vuoto al quale Borges dà volontieri il nome di Dio, in uno dei suoi inchini profondi e recitati di mussulmano alla Mecca.

In verità, in ogni suo racconto si ripete questa magica collisione, che ha l’intento di ricondurci ogni volta ad un’antica parola: Tutto è l’Uno. Come nella scuola di tiro d’arco Zen, anche cui il tiratore dovrà farsi allo stesso tempo arco freccia e bersaglio, dimenticare che — e perché — sta tirando d’arco; e allora non avrà più importanza la propria o l’altrui vita, il proprio o l’altrui destino, poiché chi scocca l’arco è il Tutto, come lo è chi riceve la freccia. Ma nei racconti di Borges questa scoperta non è il frutto imprevedibile e spontaneo della lunga dedizione buddista, anzi è una illuminazione perfettamente tragica: l’attimo appunto che infrange tutti gli specchi, il barbaglio in cui le immagini sovrapposte si annientano, lasciando appena l’ombra disegnata, come l’uomo sul ponte di Hiroshima.

In uno dei suoi racconti più belli, I teologi, Giovanni di Pannonia arde sul rogo. Lo ha denunziato copertamente Aureliano, per anni suo rivale segreto nella dotta confutazione degli eresiarchi. Al termine della sua vita egli arderà allo stesso modo in un incendio e saprà in quel momento preciso che “agli occhi della insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia formavano una sola persona”. Così il gaucho argentino Isidoro Cruz si scopre una sola persona con l’eroe fuggiasco Martín Fierro che sta inseguendo attraverso un canneto, e gli balza accanto e combatte con lui. Identificazioni: e non soltanto di volti, ma di eventi: talché un fatto, rivissuto per un certo tempo dalla memoria che lo vuole redimere, si tramuta in altro fatto non meno vero del fatto reale, e ha diritto di tramutare in tal modo anche nella memoria altrui, che veramente muore e rinasce insieme con il fatto purificato e redento. È la storia di Pedro Damián (così sottilmente accesa da quella di Pier Damiani) che al momento della sua morte tutti ricordano improvvisamente come un eroe; dopo anni vissuti da lui nell’ignominia a “consumare” con la sua mente una sua antica viltà. In Ema Zunz — uno spunto che avrebbe sollecitato Maupassant — una vergine si lascia violare da uno sconosciuto per vendicare, con un delitto simulato, un antico delitto mai punito; ella non distingue, a ragione, tra i due fatti, i due eventi sono in realtà uno solo, del secondo “false soltanto le circostanze, l’ora e uno o due nomi propri”. Confluiscono cui le due tesi concentriche predilette da Borges: l’ultima identità di ogni cosa e il ciclico ritorno di ogni possibile circostanza, quale fu suggerito ciclicamente, dai pitagorici a Nietzsche.
In alcuni racconti, il centro de tali universi speculari si configura volentieri in un oggetto sacro, una sorta di siggillo di Salomone: fonte di estasi e di terrore in cui tutto l’esistente si concentra e riassume. Borges ha pochi temi e persino pochi simboli; ma sono temi e simboli polivalenti, inesauribili per la loro stessa natura: il labirinto, lo specchio, la città, il giardino, l’atlante, la scrittura. L’oggetto sacro li riassume: è la sintesi della sintesi, il concentrato, il mandala.

È la moneta Zahir — una sorta di “orso bianco” al quale non si può non pensare (ma pensarla conduce rapidamente alla follia). Sono le tigri magiche dipinte da un martire sulle pareti di una prigione “come una specie di tigre infinita fatta di molte tigri in modo vertiginoso”. Sono le macchie del giaguaro nelle quali un antico sacerdote messicano, imprigionato per la vita in una cella senza luce, decifra penosamente le parole che esprimono l’universo, le parole che “basterebbe pronunziare per essere onnipotenti” (ma, decifrate quelle parole, quale senso può avere più essere onnipotente?). O è la sacra lettra Aleph, l’alfa dell’alfabeto ebraico: un punto in cui convergono tutti i punti, dove tutto è presente simultaneamente: vita e morte, spazio e tempo, corruzione e durata, rapimento ed orrore, in una spirale di vertigine cosmica. “Per la Cabala” scrive Borges “quella lettera rappresentava l’Ensoph, l’illimitata e pura divinità; fu anche detto che essa a la figura di un uomo che indica cielo e terra per significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del superiore; per la Mengelehre è il simbolo dei numeri transfiniti nei quali il tutto non è maggiore di alcuno dei componenti” en ancora: “Forse volle dire: non c’è fatto, per inutile che sia, che non racchiuda la soria universale e la sua infinita concatenazione di effetti e di cause; forse volle dire che il mondo visibile e intero in ogni rappresentazione, cosi comme la volontà, secondo Schopenhauer, è intera in ogni individuio”.

Tutto dunque è l’Uno. È questa la metafisica di Borges? E si può parlare, per Borges, di metafisica? Abbiamo detto come volentieri egli s’inchini al vuoto imperscrutabile, salutandolo con il nome di Dio. Potremmo dire che, con altrettanto impassibile reverenza, egli si inchini all’attimo. In una sua poesia, Dall’inferno e dal Cielo, egli afferma che il giudizio finale non decreterà gioia eterna o eterno spasimo agli eletti ed ai reprobi, ma a ciascuno lascierà in fronte, per l’eterno, il viso che la sua vita a prescelto e preservato (forse il volto dell’amore, forse quello del Tempo); e la contemplazione di quel volto sarà Inferno ai reprobi, Paradiso ai beati. È forse lecito applicare all’intera opera di Borges la sentenza di un santo: Aeternum est immediata et lucida fruitio rerum infinitarum.

Ma non si pensi che queste tragiche e iridiscenti composizioni siano un seguito di formule esoteriche. C’è in ogni storia un ammagliante storia. Ci sono i personaggi, alteramente perfidi o ciecamente sublimi disegnati a punta di diamante. E ci sono gli innumerevoli labirinti reali: Creta come Londra, Baghdad come Buenos Aires. Il miracolo di Borges narratore sta in una sorta di linguaggio innumerevole, in cui la più lampante delle figure può senza tregua fluire in mille altre, complicarse infinitamente nel tempo e nello spazio, percorrere ed animare una tastiera di correspondenze, metafore, analogie della quale non si scorgono i limiti; laddove la più pura astrazione si configura ogni volta, per magia dello stile, in un tracciato splendente e tangibile come un tappeto o un atlante.

“Descrivere con estrema precisione fisica cose fisicamente impossibili,” scrisse Hoffmannsthal “questa è la vera creazione per mezzo della parola”. Borges è forse il solo narratore vivente che sia ancora capace di una tale creazione. L’importanza del suo mondo e del suo linguaggio — all’apparenza così sdegnoso di ogni oggettiva realtà da rasentare la frigidezza del prisma — aumenta con il pauroso aumentare, su noi e su tutto quanto ci propone la letteratura, di quella stessa realtà non più mediata. Nel blocco cieco, mutilo e massiccio del secolo, Borges crea leggermente, vertiginosamente un’apertura: ci lascia intravedere ancora una volta lo sterminato mondo che sta dietro quello vero e senza il quale il mondo vero sarà presto un mondo spettrale. Il suo gesto è simmile a quello della maga persiana che gettando grani d’inceso su un braciere “apriva nel fumo con le due mani una porta” — et per essa i prigionieri passavano nei giardini e nei boschi che credevano di avere dimenticato.
Artículo de CRISTINA CAMPO publicado en Paragone - Letteratura, abril de 1960.

Una vida breve, discreta, alejada de las modas intelectuales de su tiempo, indiferente a toda vanidad literaria, tal fue la vida de Cristina Campo. Contados libros pero de una rara intensidad: ensayos, poemas y traducciones admirables.


"Scrisse poco, e vorrebbe aver scritto meno", decía de sí misma

Traducción:
En un cuento de Borges, El inmortal, se narra la historia de un misterioso anticuario, Joseph Cartaphilus de Esmirna, “un hombre consumido y terroso, de ojos grises y barba gris, de rasgos singularmente vagos, que se manejaba con fluidez [...] en diversas lenguas”. Sabemos de éste por un manuscrito que dejó tras él, la atroz y laberíntica historia de un hombre que bebe el agua de los inmortales y antes de ser Cartaphilus fue un interlocutor escocés de Vico y antes de eso un astrólogo bohemio y un escriba árabe, que a su vez había sido un centurión de Domiciano en Tebas —y antes aún una sombra desesperada y divina que se expresaba con las palabras de Homero.

Es difícil, leyendo a Borges, no confundir oscuramente a Cartaphilus con el hombre que lo creó, creer realmente en la existencia de éstos: un señor extremadamente miope de sesenta años, director de la biblioteca de Buenos Aires, animador del grupo de “Sur”; tres o cuatro veces veces rozado por aquel acontecimiento, de características cada vez más melancólicas, que es el premio Nobel de literatura. A duras penas recordamos algunas viejas fotografías suyas, que nos lo muestran un poco moreno de piel, un poco obeso, bastante más español que inglés, aunque confluyan en él estas dos sangres y además una vena portuguesa y una educación suiza. Abramos un libro suyo: El Aleph, Ficciones, Historia universal de la infamia, Historia de la eternidad, y veremos cómo Borges desaparece en sus propias palabras, se vuelve antiquísimo y ajeno a toda raza: un hombre precisamente “de rasgos singularmente vagos” hasta el que por cierto no es fácil llegar, que quizás esté lisa y llanamente muerto desde hace mucho tiempo y sólo reaparece fugazmente aquí y allá, bajo la apariencia de un hermético viajero.

Borges acaso sea el único narrador-humanista que el mundo aún posee; es el lírico de la historia, el erudito de la poesía, en cuyos textos se encuentran y se subliman, en deslumbrantes y capciosas alquimias, los secretos esplendores de todas las tradiciones, en particular, dados el nacimiento y la naturaleza de Borges, la arabo-hispánica: la platónica, por lo tanto, y la cátara, la gnóstica, la cabalística, la alquímica. Todo ello complicado por una pérfida y delicadísima red de ceremoniales ironías: el fabulista ritual se viste de inglés.

En diversas páginas Borges rindió homenaje a los autores modernos a los que “continuamente relee”: Schopenhauer, De Quincey, Stevenson y, puesto que no hay alianzas imposibles para su astral esnobismo, Chesterton, Shaw, Léon Bloy. Pero, al leer sus cuentos más puros, dos nombres muy diversos acuden súbitamente a la memoria: el Hoffmannstahl de Andreas, de la Carta de Lord Chandos a Bacon de Verulamn, y el Ernst Jünger de los Acantilados de mármol. Pero el claro fuego espiritual del primero (que sabe elevarse cada vez hasta el instante de la unio mystica) y el tenaz hielo del segundo son, por así decir, sobrepasados por Borges en un estilo de impenetrable cristal, que es el mismo cristal del mundo en el que se mueve: un mundo en todo similar a los espejos de los que está lleno, un “circular delirio” de espejos dentro de espejos; de modo que a veces estas innumerables reflexiones parecen romperse una contra la otra en un relámpago que enceguece y destruye. No queda más que el puro, el inescrutable vacío al que Borges no duda en dar el nombre de Dios, en una de sus reverencias profundas y recitadas de musulmán hacia la Meca.

Ciertamente, en cada uno de sus cuentos se repite esta mágica colisión, que en cada caso se propone volver a llevarnos a una antigua afirmación: Todo es Uno. Como en la escuela de tiro al arco zen, también aquí el tirador deberá hacerse al mismo tiempo arco, flecha y blanco, olvidar que —y porqué— está tirando al arco; y entonces ya no tendrá importancia la propia vida ni la ajena, el propio destino o el ajeno, puesto que el que dispara el arco es el Todo, como lo es el que recibe la flecha. Pero en los cuentos de Borges este descubrimiento no es el fruto impredecible y espontáneo de la larga práctica budista sino, por el contrario, una iluminación perfectamente trágica: el instante preciso que rompe todos los espejos, el blanco en el que las imágenes superpuestas se aniquilan, dejando apenas la sombra dibujada, como el hombre en el puente de Hiroshima.

En uno de sus cuentos más hermosos, Los teólogos, Juan de Panonia arde en la hoguera. Lo ha denunciado disimuladamente Aureliano, que fue por años su rival secreto en la docta refutación de los heresiarcas. Al término de su vida éste arderá del mismo modo en un incendio y sabrá en ese momento preciso que “ para la insondable divinidad él y Juan de Panonia formaban una sola persona”. Así el gaucho argentino Isidoro Cruz descubre que es una sola persona con el héroe fugitivo Martín Fierro, al que está persiguiendo por un pajonal, y se pone junto a él de un salto y combate con él. Identificaciones: y no sólo de caras sino de acontecimientos, de modo tal que un hecho que por cierto tiempo vuelve a vivir en la memoria que quiere redimirlo, se transmuta en otro hecho no menos auténtico que el hecho real y tiene derecho a transmutarse de tal modo también en la memoria ajena que realmente muere y renace junto con el hecho purificado y redimido. Es la historia de Pedro Damián (tan sutilmente suscitada por la de Pier Damiani), a quien en el momento de su muerte todos recuerdan de pronto como a un héroe; después de años vividos por él en la ignominia para “corregir” con la mente una vieja cobardía suya. En Emma Zunz —una idea que hubiera podido inspirar a Maupassant— una virgen se deja violar por un desconocido para vengar, con un delito fingido, un antiguo delito nunca castigado; no distingue, y con razón, entre los dos hechos, los dos acontecimientos son en realidad uno solo, y del segundo sólo son “falsas las circunstancias, la hora y uno o dos nombres propios”. Confluyen aquí las dos tesis concéntricas favoritas de Borges: la identidad última de toda cosa y el retorno cíclico de toda circunstancia posible, tal como cíclicamente fue sugerido, desde los pitagóricos hasta Nietzsche.

En algunos cuentos, el centro de tales universos especulares se encuentra naturalmente en un objeto sagrado, una suerte de sello de Salomón: fuente de éxtasis y de terror en la que todo lo existente se concentra y se resume. Borges tiene pocos temas y hasta pocos símbolos; pero son temas y símbolos polivalentes, inagotables por su misma naturaleza: el laberinto, el espejo, la ciudad, el jardín, el atlas, la escritura. El objeto sagrado los resume: es la síntesis de la síntesis, el concentrado, el mandala.

Es la moneda Zahir —une especie de “oso polar” en el que no se puede no pensar (pero pensar en ella conduce rápidamente a la locura). Son los tigres mágicos pintados por un mártir en las paredes de una prisión, “una especie de tigre infinito, hecho de muchos tigres de vertiginosa manera”. Son las manchas del jaguar en las que un antiguo sacerdote mexicano, encarcelado de por vida en una celda sin luz, descifra penosamente las palabras que expresan el universo, las palabras que “bastaría pronunciar para ser omnipotente” (pero, una vez descifradas esas palabras, ¿qué sentido puede tener ya ser omnipotente?). O es la sagrada letra Aleph, la letra alfa del alfabeto hebreo: un punto en el que convergen todos los puntos, donde todo está presente simultáneamente: vida y muerte, espacio y tiempo, corrupción y duración, éxtasis y horror, en una espiral de vértigo cósmico. “ Para la Cábala”, escribe Borges, “esa letra significa el En Soph, la ilimitada y pura divinidad; también se dijo que tiene la forma de un hombre que señala el cielo y la tierra, para indicar que el mundo inferior es el espejo y es el mapa del superior; para la Mengenlehre, es el símbolo de los números transfinitos, en los que el todo no es mayor que alguna de las partes”. Y también: “Tal vez quiso decir que no hay hecho, por humilde que sea, que no implique la historia universal y su infinita concatenación de efectos y causas. Tal vez quiso decir que el mundo visible se da entero en cada representación, de igual manera que la voluntad, según Schopenhauer, se da entera en cada sujeto”.

Todo, por lo tanto, es Uno. ¿Es esta la metafísica de Borges? ¿Y se puede hablar, para Borges, de metafísica? Hemos dicho cómo no duda en inclinarse sobre el vacío inescrutable, saludándolo con el nombre de Dios. Podríamos decir que, con reverencia igualmente impasible, se inclina sobre el instante. En un poema suyo, Del infierno y del cielo, afirma que el Juicio Final no decretará felicidad eterna o eterno tormento a los elegidos y a los réprobos, sino que pondrá delante de cada uno, por toda la eternidad, el rostro que su vida ha elegido y preservado (quizás el rostro del amor, quizás el del Tiempo); y la contemplación de ese rostro será Infierno para los réprobos, Paraíso para los elegidos. Quizás sea lícito aplicar a la obra entera de Borges la sentencia de un santo Aeternum est immediata et lucida fruitio rerum infinitarum.

Pero no debemos pensar que estas trágicas e iridiscentes composiciones sean una sucesión de fórmulas esotéricas. En cada historia hay una historia que recompone la unidad. Están los personajes, altivamente pérfidos o ciegamente sublimes, dibujados con una punta de diamante. Y están los innumerables laberintos reales: tanto Creta como Londres, tanto Bagdad como Buenos Aires. El milagro del Borges narrador reside en una especie de lenguaje innumerable, en el que la más perspicua de las figuras puede fluir sin pausa en otras mil, complicarse infinitamente en el tiempo y en el espacio, recorrer y animar toda una gama de correspondencias, metáforas, analogías cuyos límites no se alcanza a percibir; mientras que la más pura abstracción se materializa cada vez, por la magia del estilo, en un trazado esplendente y tangible como un tapiz o un atlas.

“Describir con extrema precisión física cosas físicamente imposibles”, escribió Hoffmannsthal, “ésa es la verdadera creación por medio de la palabra”. Borges quizás sea el único narrador vivo que aún es capaz de crear de ese modo. La importancia de su mundo y de su lenguaje —aparentemente tan desdeñoso de toda realidad objetiva que roza la frigidez del prisma— aumenta con el pavoroso aumento, en nosotros y en todo lo que nos propone la literatura, de esa misma realidad ya no mediata. En el bloque ciego, mutilado y macizo del siglo, Borges hace ligeramente, vertiginosamente una abertura: nos deja entrever una vez más el exterminado mundo que está detrás del verdadero y sin el cual el mundo verdadero será pronto un mundo espectral. Su gesto es semejante al de la maga persa que, echando granos de incienso en un brasero, “abría con ambas manos una puerta en el humo” —y por ella pasaban los prisioneros a los jardines y a los bosques que creían haber olvidado.
Fuente: http://literaturafrancesatraducciones.blogspot.com/2010/03/borges-por-cristina-campo.html    

Un mensaje de Semana Santa - Hugo César



Perdona




Si te embarga la razón alguna afrenta,
actúa como si no la hubieras escuchado,
sólo es péstida basura, ¡hazla a un lado!,
recoge solo lo que sirve para ofrenda.

No puede ser una corona de rosas
igual a otra que se hizo con espinas.
La primera es delicada y fina,
la otra, hiriente y horrorosa.

Si hay algo peligroso en este suelo
es el hombre mediocre y resentido,
porque quiere ser lo que no ha sido,
y daña al otro en su imposible vuelo.

Procura que nunca vean que lloras
ni dejes que adivinen tu tristeza.
Demuestra que tienes entereza
Aunque por dentro el dolor te doble.

Vive la vida como Dios quiere,
sigue su ejemplo de amor y caridad,
perdona al que te hiere, que es verdad,
que sufre más el que hiere, que el herido.
 
Hugo César Séner
Pascua 2010

Homenaje a Alejandro Roemmers, poeta y escritor de Buenos Aires

El martes 30 de marzo a las 18:30 hs. en el Salón Dorado de la Legislatura Porteña se entregará la distinción de personalidad destacada de la cultura de la Ciudad de Buenos Aires a Alejandro Roemmers, poeta y escritor porteño, a partir de un proyecto del Ley (Nº 3022-D-2008) del ex Diputado Guillermo Smith.

Roemmers será distinguirlo con el título de “Personalidad Destacada de la Cultura de la Ciudad de Buenos Aires” por el contenido ético de su obra, su destacada trayectoria en el mundo de las letras y el reconocimiento local, nacional e internacional que ha merecido su trabajo literario.

Comenzó de niño su vocación poética. Su primer libro “Soñadores, soñad”, reúne en su mayor parte poemas escritos entre los trece y los dieciocho años. Desde entonces su poesía ha sido objeto de numerosas distinciones y publicaciones e incluida en antologías de poesía sudamericana.
Su última obra “El Regreso del Joven Príncipe” fue editada en el año 2000 y reeditada en noviembre de 2008.
“Cabe destacar que en su última obra “El Regreso del Joven Príncipe”, en el prefacio que escribiera Frédéric d’ Agay, Presidente de la Fundación Antoine de Saint-Exupéry, expresa su agradecimiento por la continuación de le Petit Prince (El Principito) y la fiel interpretación que hace del personaje y de su autor. Más aún cuando lo proyecta en el mundo que fuera asolado por la segunda guerra mundial y la necesidad de abrir el corazón y la espiritualidad de los hombres para una buena y humana convivencia de un mundo en paz”, expresa Smith en los fundamentos del proyecto.

Noris envía noticias y buenos deseos

Hola amigos, les hago llegar dos links de amigos poetas.


El primero escribió un poema a mi persona
Gracias por su comentario, aunque esté en francés
http://lonesomemao.skyrock.com/590.html

El segundo en la sección Magazine, publico uno de mis poemas,
http://www.anitamcnamee.com/
Gracias por su comentario

Una Venezolana en el mundo de las letras
Felices Pascuas
Noris Roberts

Treinta y cuatro años después del Milagro.Por Olga I. Román

Un día como el de hoy,  y con sólo 18 años, sentí los ojos de Dios mísmo en mí, sentí  Su mirada de amor,  en cada célula, en cada poro, en cada sentimiento..

Sentí cómo esa  mirada penetrante y luminosa me transpasaba, desnudándome íntegra espiritualmente y viéndome sin tapujo alguno algo que siempre fué mio:"Yo Misma" .

Vi su pertenencia de todo  mí  ser a ese Todo, tan gigante... majestuoso, inmaculado, y  lo sentí mi "Emanuel".

Y eso  me gustó y mucho .

Sentí también que por mi sangre comenzó a correr Su Sangre hasta detener su mirada en mi alma.

Se quedó un rato, como observándola detenidamente. Supuse que sacaría lo que a Él no le gustaba o que quería cambiar en mi y dejaría lo otro, lo valioso...

Porque sé que soy valiosa para Dios y es lo único que me importa en realidad. Es lógico que así fuera  porque algo estaba  recorriendo dulcemente todo mi ser (como todo caballero lo hacía "dulcemente").

 Dicen los que saben que Él va sacando lo mejor que hay en ti, hasta pulirte como un brillante puro y hermoso. Supuse que estaría trabajando en ese aspecto de mi alma y me gustó.

Lo que no sabía, lo que no me imaginaba , es que en ese momento Él decidió prepararme en cuerpo, alma y espíritu para recibir el regalo más valioso de la vida:

 ¡El de ser Mamá!

Pero también me habló y con voz dulce, no audible para otros pero sí  para mí , enérgicamente,  como dándole autoridad a cada palabra que  resonada en mi cabeza, en mis oidos, en las fibras más íntimas de todo mi ser, y me dijo:

"Hija, te conozco desde antes de ti mísma. Eres agradable a mis ojos pero te he purificado, ya que enviaré a tu ser , otro ser que será especial para mi. Debes cuidarla más que a tu vida mísma, porque será una "ella" que me amará y me servirá.

Será una piedra preciosa en este mundo, será más que el topacio, más que el rubí, más que el jaspe,... más que cualquier piedra preciosa.

Se distinguirá de todos los seres. Traerá su luz propia como las estrellas, porque será un ser de luz y su luz será buena.

No dejará de irradiar fe, amor, esperanza. Pondré en ella un corazón puro y solidario , porque eso hablará de Mi en ella.

Tu vientre será bendito, como el de ella. Crecerán juntas, aprenderán juntas, disfrutarán juntas, soñarán juntas, trabajarán juntas y seguirán creciendo  hasta los últimos días de ti misma, juntas.

Porque las he hecho  una, una en una,  y hasta la mísma sangre tendrán... valiosa, única... como lo serán madre e hija.

Yo Soy y te bendigo, hija , en un día como el de hoy, único e irrepetible ,con tu primer hija bendita (vendrán 3 más).

Sólo seme fiel.

Este nombre le pondrás, es el de ella en el cielo , donde se habla el lenguaje del cielo, ése que sólo madre e hija podrán entender. Aunque el mundo persista en nombrarla de mil otras maneras:

y la llamarás :Maria de los Ángeles"
y le dije: ¡Sí Padre!




Feliizzzzzzzzzzzzzzzzz Cumple vidaaaaaaaa Hijita!!!
 te amo y Extrañoooo!!!
Mami.
(foto a pedido de amigos)
**********************

El sueño. Jorge Luis Borges


Si el sueño fuera (como dicen) una


tregua, un puro reposo de la mente,


¿por qué, si te despiertan bruscamente,


sientes que te han robado una fortuna?


¿Por qué es tan triste madrugar? La hora


nos despoja de un don inconcebible,


tan íntimo que sólo es traducible


en un sopor que la vigilia dora


de sueños, que bien pueden ser reflejos


truncos de los tesoros de la sombra,


de un orbe intemporal que no se nombra


y que el día deforma en sus espejos.


¿Quién serás esta noche en el oscuro


sueño, del otro lado de su muro?

Jorge Luis Borges


Encantos. por: Zamir González Domínguez



Y qué cosas, evidentes o materiales,

Habrán sido excusa para tus embrujos?

Fueron, acaso, brillos de menguantes ojos,

Sembrados hacia la era,

Opacada por las noches tristes?

Eventualidad que bien explicaría en anales,

Por tantos recuerdos y glorias tan señeras,

De aquellos tiempos donde me conmovías,

Suma de tributos y adoraciones sinceras,

Donde la excelsa y romántica lastimera,

Tú entre tantas primaveras,

Al conmover de mi corazón, volvías pasiones materiales
Podría empezar, quizás en juicio objetivo,

Por tus ojos brillantes y vívidos,

Luceros despampanantes como héroe altivo,

Lanzadera en profundidades de cielos cálidos,

Apuntando hacia otros cielos,

Insondables, supremos y de mí muy privativos,

Como la ocasión de ese miércoles invasivo,

Sol de veranos concurridos y tempestuosos inviernos,

Donde a mis miradas, clavaste tus recuerdos eternos

O quizás,

Bien podría concluir en tu cuerpo de doncella,

Enquistadas vivacidades de frágil damisela,

O la monumentalidad de tu alma,

Para mí tan sincera,

Espíritu transfigurado en la tarde calma,

Por la que nuestros paseos de alameda serena,

Tornábanse placeres infinitos de cautivante verbena

Y si yo, en juicios de analíticos fueros

Expresara la veracidad del dictamen tan necesario,

Objetivo encauzado hacia mis ideales severos,

Del porque a tus pies, bajo conquista caí señero,

Bien yo exclamaría ante los frívolos lastimeros,

Que las emociones y encantos de ellos,

No fueron suficientes en el alcance certero,

Para la seducción y métodos de lances arteros,

Donde su conquista, dóblega entre los maravillados,

Fue mi realización a las totalidades evidentes,

Desde ti presentes, alma, cuerpo y sentimientos
En tu presencia, reveladas bajo ofrendas verdaderas.





Gracias Zamir!!!!!!!!!!! Un placer tenerte en mi vida!!

Todos los años por :Julián Axat

todos los años

ese día

a la misma hora

sueño

viajo al pasado

una hora exacta antes de que caigan

me veo a mi mismo de siete meses

en los brazos de mamá

desesperado

les cuento de su destino

hay que irse rápido les digo

quedan pocos minutos

no vacilan

no se inmutan

llegamos a discusiones acaloradas

no hay caso pienso

se quedan

antes de volver me entregan al

niño

cuidálo

y vuelvo con él en brazos

sin rescatarlos

ni siquiera de los sueños

Julián Axat, poeta y abogado, nació en La Plata un  3 de agosto de 1976.

Locura.Jorge Rojas



Gracias Alexander!!!!!!!!!!!!!

Marco Antonio Solis




Gracias!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! tkm!!!

historia de amor .Cartas de Adolfo Bioy Casares a Elena Garro

Garro y Bioy Casares en Nueva York, años 50




A lo largo de dos décadas, de 1949 a 1969, el escritor argentino Adolfo Bioy Casares mantuvo una correspondencia amorosa con la escritora mexicana Elena Garro.



Hasta hace muy poco, el romance entre Bioy y Garro era un pasaje relativamente desconocido de la vida de ambos, apenas esbozado por ella en los apuntes para el libro Los protagonistas de la literatura americana, de Emmanuel Carballo. Durante buena parte del tiempo que duró la correspondencia, ambos eran casados: ella, con el poeta Octavio Paz; él, con la poetisa Silvina Ocampo. Por parte de Bioy, lo más que llegó a saberse es que él y Garro formaban parte de un grupo de amigos.



La naturaleza precisa de la relación salió a la luz en septiembre pasado, cuando la Universidad de Princeton abrió al público el archivo de Garro, adquirido unos meses antes. Se trata de cinco cajas de documentos, en las que hay manuscritos originales y una abundante correspondencia, entre otros papeles.



Aparte de las noventa y una cartas, trece telegramas y tres tarjetas postales que Garro recibió de Bioy, el archivo incluye correspondencia de una infinidad de personajes renombrados: José Bianco, Julio Bracho, Luis Buñuel, Emilio Carballido, Régis Debray, José María Fernández Unsain, Adolfo López Mateos, Carlos A. Madrazo, François Mauriac, Victoria Ocampo, Javier Rojo Gómez, Bernardo Sepúlveda Amor, Guillermo Soberón Acevedo...



Pero la de Bioy es la más abundante: ocupa tres fólders.



Largas son la mayoría de la cartas que el cuentista y novelista argentino escribió a Elena Garro. Largas, de renglones apretados, con letra a veces ininteligible, hinchadas de nostalgia, adulación obsesiva, angustia, autodenigración y desesperanza.



En una entrevista reciente que concedió a Lucía Melgar, profesora de literatura de Princeton, que está trabajando en una biografía de Elena Garro, la escritora contó que tuvo tres series de encuentros con Bioy. Dos en Europa, en 1949 y 1951, y una en Nueva York, en 1956. Cuando se conocieron, en 1949, en París, Garro tenía veintinueve años, y Bioy, treinta y cinco.



Pese a la abundancia de cartas que documentan la relación entre Bioy y Garro, la colección de correspondencia está incompleta. Peter Johnson, responsable de la sección latinoamericana de la biblioteca de Princeton y encargado de adquirir el archivo de Garro, comentó en una entrevista que muchos de los documentos que conservaba la escritora se extraviaron en sus mudanzas trasatlánticas.



Además, las cartas que Garro escribió a Bioy no están en la colección.



-¿Qué pasó con esas cartas? -se preguntó a Johnson.



-No lo sé.

-¿Las tiene Bioy?



-La verdad es que él ha sido muy ambiguo al respecto.



Pasión y literatura



No todas las cartas de Adolfo Bioy Casares a Elena Garro son de amor. En algunas de ellas se habla del papel que la novelista y dramaturga desempeñó, junto a Octavio Paz, como agente literaria de Bioy en Francia.



En octubre de 1951, Bioy envió, desde Montevideo, una autorización a Octavio Paz para que encargara la traducción al francés de La invención de Morel, su novela más célebre, escrita en 1940.



Concluida la traducción de la novela en noviembre de 1951, Bioy escribió a Elena Garro, desde Buenos Aires:



"Estoy conmovido con el trabajo que te tomas con La invención. Leído en francés, me hace creer que es un buen libro, en cambio tú, al ir paso a paso con la traducción, descubrirás todas mis limitaciones".



Expresiones como ésa, de aparente falta de seguridad en sí mismo, abundan en las cartas del escritor, que fue galardonado en 1990 con el Premio Cervantes, la máxima distinción en las letras hispanas. En general, el tono de la correspondencia es depresivo.



Una carta fechada el 5 de noviembre de 1951 empieza así:



"Mi querida: Tuve que hacer un viajecito a Montevideo. Éste fue muy rápido: tres días en total. A mi vuelta me encontré con tus cartas del 26 y 27 de octubre: las más cariñosas que me has mandado desde hace tiempo. Tal vez te di lástima con mi tristeza. Si me hubieras visto en estos tres días del viaje te hubieras apiadado aún más o, basta de tonterías, me hubieras dado el olivo, como decimos aquí (me hubieras abandonado). No te puedo decir qué desolado me parecía todo: viajar en avión, llegar a un cuarto (color pardo) del Nogaró, almorzar y comer, conversar con los maîtres, los mozos, las consignas de siempre. «¿Para qué estoy haciendo esto?», me decía".



Las cartas de Bioy persiguieron a Elena Garro por todo el mundo: Francia, Japón, México, Suiza, Austria... Bioy parece incluso haber asediado a su correspondiente. Entre agosto y octubre de 1951, le envió una veintena de cartas.



"Perdóname que esté escribiéndote de nuevo -redactó, el 8 de septiembre de ese año-, quisiera darte un respiro, pero tengo tanta necesidad de ti que si no toleras estos monólogos voy a morir de angustia".



Cuatro días después, envió otra carta:



"Helena adorada: No te asustes de que te quiera tanto. Tú me dijiste que lloraría por ti. Solamente te equivocaste, en una carta, en la que me reprochabas mis lágrimas fáciles. Tal vez si pudiera dar un buen llanto mejoraría-pero no, eso me está negado. Debo seguir con esta pena y con los ojos secos."



Unas semanas antes, poco después de embarcarse de regreso a América, luego del segundo encuentro con Elena Garro, Bioy envió otra carta a Víctor Hugo 199, el domicilio parisiense de la familia Paz Garro. En su equipaje llevaba dos recuerdos: un zapato y el pasaporte de Elena. (Después, Garro le pediría que le devolviera el pasaporte).



"Mi querida -escribió Bioy-, aquí estoy recorriendo desorientado las tristes galerías del barco y no volví a Víctor Hugo. Sin embargo, te quiero más que a nadie... Desconsolado canto, fuera de tono, Juan Charrasqueado (pensando que no merezco esa letra, que no soy buen gallo, ni siquiera parrandero y jugador) y visito de vez en vez tu fotografía y tu firma en el pasaporte. Extraño las tardes de Víctor Hugo, el té de las seis y con adoración a Helena. Has poblado tanto mi vida en estos tiempos que si cierro los ojos y no pienso en nada aparecen tu imagen y tu voz. Ayer, cuando me dormía, así te vi y te oí de pronto: desperté sobresaltado y quedé muy acongojado, pensando en ti con mucha ternura y también en mí y en cómo vamos perdiendo todo.



"Te digo esto y en seguida me asusto: en los últimos días estuviste no solamente muy tierna conmigo sino también benévola e indulgente, pero no debo irritarte con melancolía; de todos modos cuando abra el sobre de tu carta (espero, por favor que me escribas) temblaré un poco. Ojalá que no me escribas diciéndome que todo se acabó y que es inútil seguir la correspondencia... Tú sabes que hay muchas cosas que no hicimos y que nos gustaría hacer juntos. Además, recuerda lo bien que nos entendemos cuando estamos juntos... recuerda cómo nos hemos divertido, cómo nos queremos. Y si a veces me pongo un poco sentimental, no te enojes demasiado...



"Me gustaría ser más inteligente o más certero, escribirte cartas maravillosas. Debo resignarme a conjugar el verbo amar, a repetir por milésima vez que nunca quise a nadie como te quiero a ti, que te admiro, que te respeto, que me gustas, que me diviertes, que me emocionas, que te adoro. Que el mundo sin ti, que ahora me toca, me deprime y que sería muy desdichado de no encontrarnos en el futuro. Te beso, mi amor, te pido perdón por mis necedades".



El 17 de octubre de 1951, desde Montevideo, le volvió a escribir: "Mi querida: Discúlpame que te haga leer las noticias de siempre: que te extraño, que estoy desolado...



"¿Pasarán años sin que nos veamos?



" Tú tienes a la Chatita [la hija de Elena Garro], a Octavio, a tus padres, a Deva, a Estrellita. Para mí, Helena es la persona que más quiero en el mundo, el centro de mi vida. Ves, no me corrijo..."



Consejos de señor juicioso  



A juzgar por el contenido de la correspondencia, Adolfo Bioy Casares pudo haber tenido peso en la decisión de Elena Garro de dedicarse a la literatura.



"Debes escribir -recomendó Bioy, en una de las primeras cartas que le envió, fechada en Buenos Aires, el 25 de julio de 1949-. Que los escritores te hayamos aburrido es una fortuita circunstancia de tu biografía y sólo tiene importancia para ti; que escribas tiene importancia para todos. En esta correspondencia entre nosotros se ve de qué lado está el escritor; lo es de éste. ¿Ves Helena? Pongo el énfasis en este consejo de señor juicioso (¡si pudiera convencerte!)".



Dos años después, Bioy escribió a Garro desde la Argentina para decirle que un productor de teatro estaba "estudiando, muy interesado" una de las obras de la mexicana.



Pero, en las cartas, Bioy casi siempre se refiere a la literatura para hablar de lo que no ha podido escribir o de lo malo que le parece lo que ha escrito:



"He interrumpido la redacción de una novela (valía poco)", anunció, por ejemplo, en una carta fechada el 7 de enero de 1950.



Y las referencias a los proyectos literarios están sepultadas entre innumerables lamentaciones de lo que no pudo ser:



"Como era de temer -escribió Bioy, el 2 de agosto de 1952, en la primera carta que envió a Tokio, donde Paz cumplía misión diplomática-, recaigo en la monotonía y en mi amor y te cuento que eres mágica, o que eres la única diosa que he conocido, o que te vi de atrás, con un abrigo de pelo de camello y peinada con moño y colita, en la calle Tucumán y que hube de matar a alguien para poder alcanzarte, mas que finalmente desapareciste por Esmeralda. Resuelvo escribirte, pero se van pasando los días y no hago nada; sigo con la cabeza pesada, como si tuviera una corona de hierro, sin hacer nada y con mucha tristeza y con mucho cansancio... Tengo todo muy abandonado: el cuento de 1839, la novela, unos datos biográficos que me pidió Laffont... Por cierto, todo lo que te he enumerado importa poco; pero aquí no podía hacer nada mucho mejor. Comprendo que soy apenas un fantasma... De todos modos no me olvides o por lo menos trata de no olvidar de escribirme de vez en cuando. Eres la persona que más quiero; no pasa un día sin la pena y sin las dulzuras de extrañarte...



"No puedo creer que en mi futuro no haya más Francia. ¿Para qué, ahora? Me has cambiado los planes, hasta las costumbres de la imaginación. No puedo creer que no haya más viajes a Marly; que no llegue nunca a Víctor Hugo y que no te encuentre en el Chez Francis. Empiezo a imaginar un viaje en los barcos holandeses de que algún día te hablé. Saldría de aquí en abril o mayo y desembarcaría en el Japón un mes y medio después. Qué horror si te da pereza imaginar esa llegada. Pero te juro que no voy a molestarle [tachón]. Soy tan tonto que iba a decir lo que no conviene; iba a decir: «¡Seré como una sombra a tu lado!



Yo no sé si te lo confesé, pero a mí antes me gustaban todas las mujeres (antes=antes de conocerte). Ahora las veo como si un velo se hubiera caído de mis ojos: son tontas, son feas (al cosmos le cuesta producir a una mujer linda) y son otras. Esto de que sean otras, de que ni siquiera se parezcan a ti es su más grosera e imperdonable imperfección. Además, la idea de hacer el amor con ellas me repele: qué feo, que antiestético e incómoda la postura; qué asco, qué aburrido. He descubierto la virginidad y su casi suficiente encanto...



"Yo creo que si supieras la felicidad que me traen tus cartas... me escribirías cartas muy largas. Ya sé que soy un idiota y un mal tipo; pero un idiota y un mal tipo que te adora. Vivo pensando en ti; queriéndote, extrañándote. Qué lástima haber perdido el pasaporte. ¿Recuerdas el zapato, el hermano del que tiraste en el Bois de Boulogne? Lo visito diariamente".



La última carta de la colección está fechada en Mar del Plata, el 21 de abril de 1969. Habían pasado veinte años desde la primera misiva. La carta dice:



"Helena muy querida:



"Todos los días pienso en ti y en la Chata... En los diarios de por acá hay muy pocas noticias de México. Las que puedo darte de mí son demasiado triviales. La vidita de siempre... Menos mal que este año trabajé. Escribí una novela, El compromiso de vivir, que estoy corrigiendo; una Memoria sobre la pampa y los gauchos; un cuento, "El jardín de los sueños", y ahora un segundo cuento [ilegible]: uno y otro, Dios mío, tratan de fugas. ¿Recuerdas que en el Théåtre des Champs Elysées, en el 49, la primera noche que salimos, me dijiste que sentías gran respeto por los que huían? Me gustaría compartir hoy esa convicción. En todo caso no me parece improbable que dentro de poco me convierta en fugitivo. En la fría y solitaria Mar del Plata de esta época del año, trabajo, y, mientras tanto, estás, o creo que estás feliz... En junio o julio o agosto acaso me vaya a Europa. Cómo cambiaría ese desganado viaje si en París, en Roma, en Londres... dónde tú quieras, nos encontráramos.



"Anímense.


"Un besito de Bioy".


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Publicado en edición impresa

Por Pascal Beltrán del Río

Para La Nacion - Princeton, 1997

http://www.lanacion.com.ar/nota.asp?nota_id=213930

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Cuento: Nóumeno Adolfo Bioy casares

Probablemente fue Carlota la que tuvo la idea. Lo cierto es que todos la aceptaron, aunque sin ganas. Era la hora de la siesta de un día muy caluroso, el 8 o el 9 de enero. En cuanto al año, no caben dudas: 1919. Los muchachos no sabían qué hacer y decían que en la ciudad no había un alma, porque algunos amigos ya estaban veraneando. Salcedo convino en que el Parque Japonés quedaba cerca. Agregó:

­Será cosa de ponerse el rancho e ir en fila india, buscando la sombra.



­¿Están seguros de que en el Parque Japonés funciona el Nóumeno?­preguntó Arribillaga.

Carlota dijo que sí. El Nóumeno era un cinematógrafo unipersonal, que por entonces daba que hablar, aún en las noticias de policía.



Arturo miró a Carlota. Con su vestido blanco, tenía aire de griega o de romana. "Una griega o romana muy linda", pensó.



­Vale la pena costearse­dijo Arribillaga­. Para hacernos una opinión sobre el asunto.



­Algo indispensable­dijo con sorna Amenábar.



­Yo tampoco veo la ventaja­dijo Narciso Dillon.



­Voy a andar medio justo de tiempo­ previno Arturo­. El tren sale a las cinco.



­Y si no vas, ¿qué pasa? ¿Tu campo desaparece?­preguntó Carlota.



­No pasa nada, pero me están esperando.



Aunque no fuera indispensable la fila india, tampoco era cuestión de insolarse y derretirse, de modo que avanzaron de dos en dos, por la angosta y no continua franja de sombra. Carlota y Amenábar caminaban al frente; después, Arribillaga y Salcedo; por último, Arturo y Dillon. Éste comentó:



­Qué valientes somos.



­¿Por salir con este solazo?­preguntó Arturo.



­Por ir muy tranquilos a enfrentarnos con la verdad.



­Nadie cree en el Nóumeno.



­Desde luego.



­Es de la familia de la cotorra de la buena suerte.



­Entonces, una de dos. O no creemos y ¿para qué vamos? O creemos y ¿pensaste, Arturo, en este grupo de voluntarios? La gente más contradictoria de la República. Empezando por un servidor. Nací cansado, no sé lo que se llama trabajar, si me arruino me pego un tiro y no hay domingo que no juegue hasta el último peso en las carreras.



­¿Quién no tiene contradicciones?



­Unos menos que otros. Vos y yo no vamos al Nóumeno batiendo palmas.



Arturo dijo:



­A lo mejor sospechamos que para seguir viviendo, más vale dormirse un poco para ciertas cosas. ¿Qué va a suceder cuando entre Arribillaga y vea cómo el aparato le combina su orgullo de perfecto caballero con su ambición política?



­Arribillaga sale a todo lo que da y el Nóumeno estalla ­dijo Dillon­. ¿Amenábar también tendrá contradicciones?



­No creo.



Cuando conoció a Amenábar, Arturo estudiaba trigonometría, su última materia de bachillerato, para el examen de marzo. Un pariente, profesor en el colegio Mariano Moreno, se lo recomendó. "Si te prepara un mozo Amenábar", le dijo, "no sólo aprobarás trigonometría, sabrás matemáticas". Así fue, y muy pronto entablaron una amistad que siguió después del examen, a través de esas largas conversaciones filosóficas, que en alguna época fueron tan típicas de la juventud. Por Arturo, Amenábar conoció a Carlota y después a los demás. Lo trataban como a uno de ellos, con la misma despreocupada camaradería, pero todos veían en él a una suerte de maestro, al que podían consultar sobre cualquier cosa. Por eso lo llamaban el Profe.



Comentó Dillon:



­Su idea fija es la coherencia.



­Ojalá muchos tuviéramos esa idea fija ­ contestó Arturo­. Él mismo dice que la coherencia y la lealtad son las virtudes más raras.



­Menos mal, porque si no, con la vida que uno lleva... ¿Qué sería de mí, un domingo sin turf? ¡Me pego un balazo!



­Si hay que pegarse un balazo porque la vida no tiene sentido, no queda nadie.



­¿También Carlota será contradictoria? A ella se le ocurrió el programa.



­Carlota es un caso distinto­explicó Arturo; con aparente objetividad­. Le sobra el coraje.



­Las mujeres suelen ser más corajudas que los hombres.



­Yo iba a decir que era más hombre que muchos.



Tal vez Arturo no estuviera tan alegre como parecía: Cuando hablaba de Carlota se reanimaba.



­No conozco chica más independiente­ aseguro Dillon, y agregó­: Claro que la plata ayuda.



­Ayuda. Pero Carlota era muy joven cuando quédó huérfana. Apenas mayor de edad. Pudo acobardarse, pudo buscar apoyo en alguien de la familia. Se las arregló sola.



"Y por suerte ahí va caminando con Amenábar", pensó Arturo. "Sería desagradable que tuviera al otro a su lado."



Entraron en el Parque Japonés. Arturo advirtió con cierto alivio que nadie se apuraba por llegar al Nóumeno. Lo malo es que no era el único peligro. También estaba la Montaña Rusa. Para sortearla, propuso el Water Shoot, al que subieron en un ascensor. Desde lo alto de la torre, bajaron en un bote, a gran velocidad, por un tobogán, hasta el lago. Pasaron por el Disco de la Risa, se fotografiaron en motocicletas Harley Davidson y en aeroplanos pintados en telones y, más allá del teatro de títeres, donde tres músicos tocaban Cara sucia, vieron un quiosco de bloques de piedra gris, en papier mache, que por la forma y por las dos efinges, a los lados de la puerta, recordaba una tumba egipcia.



­Es acá­dijo Salcedo y señaló el quiosco.



En el frontispicio leyeron: El Nóumeno y, a la derecha, en letras más chicas: de M. Cánter. Un instante después un viejito de mal color se les acercó para preguntar si querían entradas. Arribillaga pidió seis.



­¿Cuánto tiempo va a estar cada uno adentro?­preguntó Arturo.



­Menos de un cuarto de hora. Más de diez minutos­contestó el viejo.



­Bastan cinco entradas. Si me alcanza el tiempo compro la mía.



­¿Usted es Cánter?­preguntó Amenábar.



­Sí­dijo el viejo­. No, por desgracia, de los Cánter de La Sin Bombo, sino de unos más pobres, que vinieron de Alemania. Tengo que ganarme la vida vendiendo entradas para este quiosco. ¡Seis, mejor dicho cinco, miserables entradas, a cincuenta centavos cada una!



­¿Ahora no hay nadie adentro?­preguntó Dillon.



­No.



­Y aparte de nosotros, nadie esperando. Le tomaron miedo a su Nóumeno.



­No veo por qué­replicó el viejo.



­Por lo que salió en los diarios.



­El señor cree en la letra de molde. Si le dicen que alguien entró en este quiosco de lo más campante y salió con la cabeza perdida, ¿lo cree? ¿No se le ocurre que detrás de toda persona hay una vida que usted no conoce y tal vez motivos más apremiantes que mi Nóumeno, para tomar cualquier determinación?



Arturo preguntó:



­¿Cómo se le ocurrió el nombre?



­A mí no se me ocurrió. Lo puso un periodista, por error. En realidad, el Nóumeno es lo que descubre cada persona que entra. Y, a propósito: ¡Adelante, señores, pasen! Por cincuenta centavos conocerán el último adelanto del progreso. Tal vez no tengan otra oportunidad.



­Deséenme buena suerte­dijo Carlota.



Saludó y entró en el Nóumeno. Arturo la recordaría en esa puerta, como en una estampa enmarcada: el pelo castaño, los ojos azules, la boca imperiosa, el vestido blanquísimo. Salcedo preguntó a Cánter:



­¿Por qué dice que tal vez no haya otra oportunidad?



­Algo hay que decir para animar al público ­explicó el viejo, con una sonrisa y una momentánea efusión de buen color, que le dio aire de resucitado­. Además, la clausura municipal está siempre sobre nuestras cabezas.



­¿Cabezas? ­preguntó Arturo­. ¿Las suyas o las de todos?



­Las de todos los que recibimos la visita de señores que viven de las amenazas de clausura. Los señores inspectores municipales.



­Una verguenza­dijo Salcedo, gravemente.



­Hay que comer­dijo el viejo.



Después de Cara Sucia, los de al lado tocaron Mi noche triste. Arturo pensó que por culpa de ese tango, que siempre lo acongojaba un poco, estaba nervioso porque la chica no salía del Nóumeno. Por fin salió y, como todos la miraban inquisitivamente, dijo con una sonrisa:



­Muy bien. Impresionante.



Arturo pensó "Le brillan los ojos".



­Acá voy yo­exclamó Salcedo y, antes de entrar, se volvió y murmuró:­No se vayan.



­Felice morte­gritó Arribillaga.



Carlota pasó al lado de Arturo y dijo en voz baja:



­Vos no entres.



Antes que pudiera preguntar por qué, ella se trabó en una conversación con Amenábar. El tono en que había dicho esas tres palabras le recordó tiempos mejores.



En el teatro de títeres tocaban otro tango. Cuando Salcedo salió del Nóumeno, entró Amenábar. Arribillaga preguntó:



­¿Qué tal?



­Nada extraordinario­contestó Salcedo.



­Explicame un poco ­dijo Dillon­. Ahí adentro ¿consigo un dato para el domingo?



­Creo que no.



­Entonces no me interesa. Casi me alegro.



­Yo, en cambio, me alegro de haber entrado. Hay una especie de máquina registradora, pero de pie, y una sala, o cabina, de biógrafo, que se compone de una silla y de un lienzo que sirve de pantalla.



­Te olvidás del proyector­dijo Carlota.



­No lo vi.



­Yo tampoco, pero el agujero está detrás de tu cabeza, como en cualquier sala, y al levantar los ojos ves el haz de luz en la oscuridad.



­La película me pareció extraordinaria. Yo sentí que el héroe pasaba por situaciones idénticas a las mías.



­¿Concluyó bien?­preguntó Carlota.



­Por suerte, sí­dijo Salcedo­. ¿Y la tuya?



­Depende. Según interpretes.



Salcedo iba a preguntar algo, pero Carlota se acercó a Amenábar, que salía del quiosco, y le preguntó cuál era su veredicto.



­Yo ni para el Nóumeno tengo veredictos. Es un juego, un simulacro ingenioso. Una novedad bastante vieja: la máquina de pensar de Raimundo Lulio, puesta al día. Casi puedo asegurar que mientras uno se limite a las teclas correspondientes a su carácter, la respuesta es favorable; pero si te da por apretar la totalidad de las teclas correspondientes a las virtudes, la inmediata respuesta es Hipócrita, Ególatra, Mentiroso, en tres redondelitos de luz colorada.



­¿Hiciste la prueba?­preguntó Carlota.



Riendo, Amenábar contestó que sí y agregó:



­¿Te parece poco serio? A mí me pareció poco serio el biógrafo. Qué cinta. Como si nos tomaran por sonsos.



Después de mirar el reloj Arturo dijo:



­Yo me voy.



­¿No me digas que te asusta el Nóumeno? ­preguntó Dillon.



­La verdad que esa puerta alta y angosta le da aspecto de tumba­dijo Salcedo.



Carlota explicó:



­Tiene que tomar el tren de las cinco.



­Y antes pasar por casa, a recoger la valija ­agregó Arturo.



­Le sobra el tiempo­dijo Salcedo.



­Quién sabe ­dijo Amenábar­. Con la huelga no andan los tranvías y casi no he visto automóviles de alquiler ni coches de plaza.



Lo que vio Arturo al salir del Parque Japonés le trajo a la memoria un álbum de fotografías de Buenos Aires, con las calles desiertas. Para que esas pruebas documentales no contrariaran su convicción patriótica de que en las calles de nuestra ciudad había mucho movimiento, pensó que las fotografías debieron de tomarse en las primeras horas de la mañana. Lo malo es que ahora no era la mañana temprano, sino la tarde.



No había exagerado Amenábar. Ni siquiera se veían coches particulares. ¿lba a largarse a pie, a Constitución? Una caminata, para él heroica, no desprovista de la posibilidad de llegar después de la salida del tren. "¿Dónde está ese ánimo? ¿Por qué pensar lo peor?", se dijo. "Con un poco de suerte encontraré algo que me lleve a Constitución." Hasta Cerrito, bordeó el paredón del Central Argentino, volviendo todo el tiempo la cabeza, para ver si aparecía un coche de plaza o un automóvil de alquiler. "A este paso, antes que las piernas se me cansa el pescuezo." Dobló por Cerrito a la derecha, subió la barranca, siguió rumbo al barrio sur. "Desde el Bajo y Callao a Constitución habrá alrededor de cuarenta cuadras", calculó. "Más vale dejar la valija." Lo malo era que de paso dejaría La ciudad y las sierras, que estaba leyendo. Para recoger la valija, tendría seis cuadras hasta su casa, en la calle Rodríguez Peña y, ya con la carga a cuestas, las seis cuadras hasta Cerrito y todas las que faltaban hasta Constitución. "Otra idea", se dijo, "sería irme ahora mismo a casa, recostarme a leer La ciudad y las sierras frente al ventilador y postergar el viaje para mañana; pero, con la huelga, quién me asegura que mañana corran los trenes. No hay que aflojar aunque vengan degollando". Nadie venía degollando, pero la ciudad estaba rara, por lo vacía, y aún le pareció amenazadora, como si la viera en un mal sueño. "Uno imagina disparates, por la cantidad de rumores que oye sobre desmanes de los huelguistas." A la altura de Rivadavia, pasó un taxímetro Hispano Suiza. Aunque iba libre, continuó la marcha, a pesar de su llamado. "A lo mejor el chófer está orgulloso del auto y no levanta a nadie."



Poco después, al cruzar Alsina, vio que avanzaba hacia él un coche de plaza tirado por un zaino y un tordillo blanco. Arturo se plantó en medio de la calle, con los brazos abiertos, frente al coche. Creyó ver que el cochero agitaba las riendas, como si quisiera atropellarlo, pero a último momento las tiró para atrás, con toda la fuerza, y logró sujetar a los caballos. Con voz muy tranquila, el hombre preguntó:



­¿Por suerte anda buscando que lo maten?



­Que me lleven.



­No lo llevo. Ahora vuelvo a casa. A casita, cuanto antes.



­¿Dónde vive?



­Pasando Constitución.



­No tiene que desandar camino. Voy a Constitución.



­¿A Constitución? Ni loco. La están atacando.



­Me deja donde pueda.



Resignado, el cochero pidió:



­Suba al pescante. Si voy con pasajero y nos encontramos con los huelguistas, me vuelcan el coche. Que lleve a un amigo en el pescante, ¿a quién le interesa? Hay que cuidarse, porque la Unión de Choferes apoya la huelga.



­Usted no es chofer, que yo sepa.



­Tanto da. Caigo en la volteada como cualquiera.



Por Lima siguieron unas cuadras. Arturo comentó:



­Corre aire acá. Uno revive. ¿Sabe, cochero, lo que he descubierto?



­Usted dirá.



­Que se viaja más cómodo en coche que a pie.



El cochero le dijo que eso estaba muy bueno y que a la noche iba a contárselo a la patrona. Observó amistosamente:



­La ciudad está vacía, pero tranquila.



­Una tranquilidad que mete miedo­aseguró Arturo.



Casi inmediatamente oyeron detonaciones y el silbar de balas.



­Armas largas­dictaminó el cochero.



­¿Dónde?­preguntó Arturo.



­Para mí, en la plaza Lorea. Vamos a alejarnos, por si acaso.



En Independencia doblaron a la izquierda y después, en Tacuarí, a la derecha. Al llegar a Garay, Arturo dijo:



­¿Cuánto le debo? Bajo acá.



­Vamos a ver: ¿viajó, sí o no, en el asiento de los amigos?­Sin esperar respuesta, concluyó el cochero:­Nada, entonces.



Porque faltaba la desordenada animación que habitualmente había en la zona, la mole gris amarillenta de la estación parecía desnuda. Cuando Arturo iba a entrar, un vigilante le preguntó:



­¿Dónde va?



­A tomar el tren­contestó.



­¿Qué tren?



­El de las cinco, a Bahía Blanca.



­No creo que salga­dijo el vigilante.



"Con tal que atiendan en la boletería", se dijo Arturo. Lo atendieron, le dieron el boleto, le anunciaron:



­El último tren que corre.



En el momento de subir al vagón se preguntó qué sentía. Nada extraordinario, un ligero aturdimiento y la sospecha de no tener plena conciencia de los actos y menos aún de cómo repercutirían en su ánimo. Era la primera vez, desde que ella lo dejó, que salía de Buenos Aires. Había pensado que la falta de Carlota sería más tolerable si estaban lejos.



Se encontró en el tren con el vasco Arruti, el de la panadería La Fama, reputada por la galleta de hojaldre, la mejor de todo el cuartel séptimo del partido de Las Flores. Arturo preguntó:



­¿Llegamos a eso de las ocho y media?



­Siempre y cuando no paren el tren en Talleres y nos obliguen a bajar.



­¿Vos creés?



­La cosa va en serio, Arturito, y en Talleres hay muchos trabajadores. Nos mandan a una vía muerta, si quieren.



­No sé. Los trabajadores están cansados.



Pasaron de largo Talleres y Arruti dijo:



­Tengo sed.



­Vayamos al vagón comedor.



­Ha de estar cerrado.



Estaba abierto. Pidió Arturo una Bilz, y un Pernod Arruti, que explicó:



­Lo que tomábamos con tu abuelo, cuando iba a la estancia, a jugar a la baraja.



­Eso fue en los último años de mi abuelo.



­Antes lo acompañabas a cazar.



De nuevo hablaron de la huelga. Con algún asombro, Arturo creyó descubrir que Arruti no la condenaba y le preguntó:



­¿No estás en contra de la huelga porque pensás que de una revolución va a salir un gobierno mejor que el de ahora?



­No estoy loco, che­replicó Arruti­. Todos los gobiernos son malos, pero a un mal gobierno de enemigos prefiero un mal gobierno de amigos.



­¿El que tenemos es de enemigos?



­Digamos que es de tu gente, no de la mía.



­No sabía que vos y yo fuéramos enemigos.



­No lo somos, Arturo, ni lo seremos. Ni tú ni yo estamos en política. Una gran cosa.



­Sin embargo, apostaría que tomamos las ideas más a pecho que los políticos.



­Esa gente no cree en nada. Sólo piensan en abrirse paso y mandar.



Imaginó cómo iba a referirle a Carlota esta conversación. Recordó, entonces, lo que había pasado. Se dijo: "Debo sobreponerme", pero tuvo sentimientos que tal vez correspondieran a una frase como: "¿Para qué vivir si después no puedo comentar las cosas con Carlota?".



Arruti, que era un vasco diserto, habló de su infancia en los Pirineos, de su llegada al país, de sus primeras noches en Pardo, cuando se preguntaba si el rumor que oía era del viento o de un malón de indios.



A ratos Arturo olvidó su pena. Lo cierto es que el viaje se hizo corto. A las ocho y media bajaron en la estación Pardo.



­Seguro que Basilio vino con el break­ dijo­. ¿Te llevo?



­No, hombre­contestó Arruti­. Vivo demasiado cerca. Eso sí: una tarde caigo de visita en la estancia. Esta vuelta vas a quedarte más de lo que tienes pensado.



Basilio, el capataz, los recibió en el andén. Preguntó:



­¿Qué tal viaje tuvieron?­y agregó después de agacharse un poco y llevar la mirada a una y otra mano de Arturo­: ¿No olvidaste nada, Arturito?



­Nada.



­¿Qué debía traer?­preguntó Arruti.



­Siempre viene con valijas cargadas de libros. Hay que ver lo que pesan.



Arruti se despidió y se fue. Arturo preguntó:



­¿Cómo andan por acá?



­Bien. Esperando el agua.



­¿Mucha seca?



­Se acaba el campo, si no llueve.



Emprendieron el largo trayecto en el break. Hubo conversación, por momentos, y también silencios prolongados. Todavía no era noche. Distraídamente Arturo miraba el brilloso pelo del zaino, la redondez del anca, el tranquilo vaivén de las patas, y pensaba: "Para vida agitada, el campo. Uno se desvive porque llueva o no llueva, o porque pase la mortandad de los terneros... Lo que es yo, no voy a permitir que me contagien la angustia". Iba a agregar "por lo menos hasta mañana a la mañana", cuando se acordó de la otra angustia y se dijo: "Qué estúpido. Todavía tengo ganas de hacerme el gracioso".



Llegaron a la estancia por la calle de eucaliptos. Era noche cerrada. La casera le tendió una mano blanda y dijo:



­Bien ¿y usted? ¿Paseando?



En el patio había olor a jazmines; en la cocina y el cuartito de la caldera, olor a leña quemada; en el comedor, olor a la madera del piso, del zócalo, de los muebles.



Poco después de la comida, Arturo se acostó. Pensaba que lo mejor era aprovechar el cansancio para dormirse cuanto antes. Un silencio, apenas interrumpido por algún mugido lejano, lo llevó al sueño.



Vio en la oscuridad un telón blanco. De pronto, el telón se rajó con ruido de papel y en la grieta aparecieron, primero, los brazos extendidos y después la querida cara de Carlota, aterrada y tristísima, que le gritaba su nombre en diminutivo. Repetidamente se dijo: "No es más que un sueño. Carlota no me pide socorro. Qué absurdo y presuntuoso de mi parte pensar que está triste. Ha de estar muy feliz con el otro. Al fin y al cabo este sueño no es más que una invención mía". Pasó el resto de la noche en cavilaciones acerca del grito y de la aparición de Carlota. A la mañana, lo despertó la campanilla del teléfono.



Corrió al escritorio, levantó el tubo y oyó la voz de Mariana, la señorita de la red local de teléfonos, que le decía:



­Señor Arturo, me informan de la oficina de la Unión Telefónica de Las Flores que lo llaman de Buenos Aires. Se oye mal y la comunicación todo el tiempo se corta. ¿Paso la llamada?



­Pásela, por favor.



Oyó apenas:



­Un rato después de salir del Parque Japonés... Imagino cómo te caerá la noticia... Encontraron el cuerpo en la gruta de las barrancas de la Recoleta.



­¿El cuerpo de quién? ­gritó Arturo­. ¿Quién habla?



No era fácil de oír y menos de reconocer la voz entrecortada por interrupciones, que llegaba de muy lejos, a través de alambres que parecían vibrar en un vendaval. Oyó nuevamente:



­Después de salir del Parque Japonés.



El que hablaba no era Dillon, ni Amenábar, ni Arribillaga. ¿Salcedo? Por eliminación quizá pareciera el más probable, pero por la voz no lo reconocía. Antes que se cortara la comunicación, oyó con relativa claridad:



­Se pegó un balazo.



La señorita Mariana, de la red local, apareció después de un largo silencio, para decir que la comunicación se cortó porque los operarios de la Unión Telefónica se plegaron a la huelga. Arturo preguntó:



­¿No sabe hasta cuándo?



­Por tiempo indeterminado.



­¿No sabe de qué número llamaron?



­No, señor. A veces nos llega la comunicación mejor que a los abonados. Hoy, no.



Después de un rato de perplejidad, casi de anonadamiento, por la noticia y por la imposibilidad de conseguir aclaraciones, Arturo exclamó en un murmullo: "No puede ser Carlota". La exclamación velaba una pregunta, que formuló con miedo. El resultado fue favorable, porque la frase en definitiva expresaba una conclusión lógica. Carlota no podía suicidarse, porque era una muchacha fuerte, consciente de tener la vida por delante y resuelta a no desperdiciarla Si todavía quedaba en el ánimo de Arturo algún temor, provenía del sueño en que vio la cara de Carlota y oyó ese grito que pedía socorro. "Los sueños son convincentes", se dijo, "pero no voy a permitir que la superstición prevalezca sobre la cordura. Es claro que la cordura no es fácil cuando hubo una desgracia y uno está solo y mal informado". De pronto le vinieron a la memoria ciertas palabras que dijo Dillon, cuando iban al Parque Japonés. Tal vez debió replicarle que el suicida es un individuo más impaciente que filosófico: a todos nos llega demasiado pronto la muerte. Recapacitó: "Sin embargo fui atinado en no insistir, en no dar pie para que Dillon dijera de nuevo que pegarse un tiro era la mejor solución. No creo que lo haya hecho... Si me atengo a lo que dijo en broma, o en serio, podría pegarse un tiro después de perder en el hipódromo. Ayer no fue al hipódromo, porque no era domingo". En tono de intencionada despreocupación agregó: "¿Qué carrerista va a matarse en vísperas de carreras?"



¿Quiénes quedaban? " ¿Amenábar? No veo por qué iba a hacerlo. Para suicidarse hay que estar en la rueda de la vida, como dicen en Oriente. En la carrera de los afanes. O haber estado y sentir desilusión y amargura. Si no se dejó atrapar nunca por el juego de ilusiones ¿por qué tendría ahora ese arranque?" En cuanto a Carlota, la única falta de coherencia que le conocía era Salcedo. Algo que lo concernía tan íntimamente quizá lo descalificara para juzgar. Si la imaginaba triste y arrepentida hasta el punto de suicidarse, caería en la clásica, y sin duda errónea, suposición de todo amante abandonado. Pensó después en Arribillaga y en sus ambiciones, acaso incompatibles: un perfecto caballero y un popular caudillo político. Por cierto, el más frecuente modelo de perfecto caballero es un aspirante a matón siempre listo a dar estocadas al primero que ponga en duda su buen nombre y también dispuesto a defender, sin el menor escrúpulo, sus intereses. Es claro que el pobre Arribillaga quería ser un caballero auténtico y un político merecidamente venerado por el pueblo y tal vez ahora mismo jugara con la idea de empuñar el volante de su Pierce Arrow y darse una vuelta por la fábrica de Vasena y arengar a los obreros huelguistas. ¿Y Perucho Salcedo? "Supongamos que no fue el que llamó por teléfono: ¿tenía alguna razón para suicidarse? ¿Un flanco débil? ¿La deslealtad con un amigo? Birlar la mujer del amigo ¿es algo serio? Además ¿cómo opinar sin saber cuál fue la participación de la mujer en el episodio?" Se dijo: "Mejor no saberlo".



A lo largo del día, de la noche y de los tres días más que pasó en el campo, Arturo muchas veces reflexionó sobre las razones que pudo tener cada uno de los amigos, para matarse. En algún momento se abandonó a esperanzas no del todo justificadas. Se dijo que tal vez fuera más fácil encontrar un malentendido en la comunicación telefónica del viernes, que una razón para matarse en cualquiera de ellos. Sin duda la comunicación fue confusa, pero el sentido de algunas frases era evidente y no dejaba muchas esperanzas: "Imagino cómo te caerá la noticia", "encontraron el cuerpo en la gruta de la Recoleta", "se pegó un balazo". También se dijo que llevado por una impaciencia estúpida emprendió esa investigación y que más valía no seguirla. Quizá fuera menos desdichado mientras no identificara al muerto.



En la última noche, en un sueño, vio un salón ovalado, con cinco puertas, que tenían arriba una inscripción en letras góticas. Las puertas eran de madera rubia, labrada, y todo resplandecía a la luz de muchas lámparas. Porque era miope debió acercarse para leer, sobre cada puerta, el nombre de uno de sus amigos. La puerta que se abriera correspondería al que se había matado. Con mucho temor apoyó el picaporte de la primera, que no cedió, y después repitió el intento con las demás. Se dijo: "Con todas las demás", pero estaba demasiado confuso como para saberlo claramente. En realidad no deseaba encontrar la puerta que cediera.



A la mañana le dijeron que se había levantado la huelga y que los trenes corrían. Viajó en el de las doce y diez.



Apenas pasadas las cinco, bajaba del tren, salía de Constitución, tomaba un automóvil de alquiler. Aunque nada deseaba tanto como llegar a su casa, dijo al hombre:



­A Soler y Aráoz, por favor.



En ese instante había sabido cuál de los amigos era el muerto. La brusca revelación lo aturdió. El chófer trató de entablar conversación: preguntó desde cuándo faltaba de la capital y comentó que, según decían algunos diarios, se había levantado la huelga, lo que estaba por verse. Quizás en voz alta Arturo pensó en el suicida. Murmuró:



­Qué tristeza.



No le quedó recuerdo alguno del momento en que bajó del coche y caminó hacia la casa. Recordó, en cambio, que abrió el portón del jardín y que la puerta de adentro estaba abierta y que de pronto se encontró en la penumbra de la sala, donde Carlota y los padres de Amenábar estaban sentados, inmóviles, alrededor de la mesita del té. Al ver a su amiga, Arturo sintió emoción y alivio, como si hubiera temido por ella. Trabajosamente se levantaron la señora y el señor. Hubo saludos; no palmadas ni abrazos. Ya se preguntaba si lo que había imaginado sería falso, cuando Carlota murmuró:



­Traté de avisarte, pero no conseguí comunicación.



­Creo que me llamó Salcedo. No estoy seguro. Se oía muy mal.



La señora le sirvió una taza de té y le ofreció tostadas y galletitas. Después de un rato anunció Carlota:



­Es tarde. Tengo que irme.



­Te acompaño­dijo Arturo.



­¿Por qué se van tan pronto?­preguntó la señora­. Mi hijo no puede tardar.



Cuando salieron, explicó la muchacha:



­La madre se niega a creer que el hijo ha muerto. Me parece natural. Es lo que todos sentimos. ¿Por qué no quiso vivir?



­Amenábar era el único de nosotros que no se permitía incoherencias







Yo, Bioy Casares
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